martedì 22 dicembre 2015

Robert Johnson: il chitarrista del Diavolo

Piantagione di Dockery, Mississippi, primi anni '30.

E' mezzanotte. Due ombre si fronteggiano in silenzio, squadrandosi reciprocamente, in uno spiazzo desolato nel cuore di un luogo che, per lunghi anni, aveva visto uomini smarrire l'essenza stessa di ciò che, fino ad allora, li aveva resi tali. All'improvviso, una voce profonda penetra l'oscurità come un maglio.

"Che cos'hai per me, Robert?"

Robert porge allo sconosciuto lo strumento che reca con sé, una vecchia chitarra logorata dall'uso e dal tempo.

"Sono venuto a venderti la mia anima".

Lo sconosciuto imbraccia la chitarra e la accorda meticolosamente. Pochi fraseggi, suonati con precisione e velocità innaturali; poi, senza una parola, la riconsegna al proprietario. In silenzio, le due figure si congedano e se ne vanno ognuna per la propria strada, inghiottite da una notte nera come un pozzo senza fondo.


La sera seguente, un giovane di colore fa il suo ingresso in un juke joint, uno dei tanti locali malfamati della città, dove whisky della peggior qualità e buona musica formano un connubio indissolubile. Quella sera, però, è diverso dal solito; i suoi amici notano un bagliore sinistro nei suoi occhi, la luce di chi è sicuro di sé e delle sue capacità e vuole dimostrarlo al mondo.


Senza dire una parola, sale su un derelitto palco da qualche parte in fondo al locale, in mezzo al fumo e alle risate degli ubriachi; si siede, chitarra a tracolla, e comincia a suonare. I testimoni presenti quella sera furono concordi nell'affermare più o meno ciò che, alcuni decenni dopo, dirà Eric Clapton, un altro che con le sei corde se la cavava piuttosto bene:
"Non ho mai trovato nulla di più profondamente intenso. La sua musica rimane il pianto più straziante che penso si possa riscontrare nella voce umana."
Dietro a quella figura misteriosa si cela uno dei più grandi enigmi della storia recente degli Stati Uniti: il suo nome è Robert Leroy Johnson.


Il protagonista di questo racconto nasce nel 1911 ad Hazlehurst, in Mississippi, da una relazione extraconiugale della madre con un bracciante della zona, Noah Johnson. Nel corso degli anni, la madre cambia due mariti, il che, anche per via dei continui spostamenti derivati dall'instabilità della vita familiare, rende l'infanzia di Robert e dei suoi dieci fratelli piuttosto volatile.

Per sfuggire ai disagi che la povertà estrema e la sua condizione di afroamericano in una società segregata gli riservano, Robert trova ben presto una valvola di sfogo: la musica. Uno dei fratelli lo avvia in un primo momento all'armonica e, in seguito, alla chitarra, insegnandogli i primi accordi. Fin da subito il ragazzino mostra una dedizione totale verso lo strumento; si esercita in maniera ossessiva, suonando per giornate intere, senza però ottenere grossi risultati. Ciononostante, convinto che fosse quella la sua vera vocazione, abbandona lo studio, per cui non aveva mai mostrato grande interesse, e si mette in viaggio per incontrare i più grandi musicisti dell'epoca.


Giunge quindi a Memphis, e qui conosce Virginia Travis, una ragazza di sedicici anni che in breve tempo diverrà sua moglie. Nel frattempo, stringe amicizia con alcuni fra i più influenti chitarristi dell'epoca, fra i quali Son House e Charley Patton, con cui inizia a collaborare. Tuttavia, per volenteroso che fosse, Robert inizialmente non mostra la benché minima traccia di talento, tanto che gli stessi House e Patton, insieme ai quali aveva avuto modo di esibirsi, dissero di lui:
"Robert imbracciava la chitarra e iniziava a strimpellare solo per fare rumore, e alla gente non piaceva, tanto che venivano a dirci "Perché non andate a dirgli di smetterla? Ci fa impazzire". Nemmeno un cane sarebbe rimasto ad ascoltarlo!".
Nessuno immagina che ben presto Robert li avrebbe smentiti tutti.

Soltanto un anno dopo il matrimonio, la moglie di Johnson muore durante il parto, e con lei anche la creatura che portava in grembo; l'evento lo fa precipitare in uno stato di profonda depressione. Robert inizia a girovagare senza meta per le città del Mississippi come uno sbandato, trovando rifugio nell'alcol e nella musica. I suoi continui spostamenti ne fanno perdere le tracce, e di lui non si hanno più notizie per molti mesi.


Quando ormai in molti lo avevano dato per morto, ecco che Robert ricompare improvvisamente. Qualcosa però è cambiato in lui; il ragazzo smilzo e gracile degli anni di Memphis si è trasformato in un uomo di ghiaccio, con uno sguardo penetrante e un fascino magnetico. Comincia a esibirsi frequentemente nei locali del sud del Mississippi, mostrando un talento chitarristico sconosciuto a chiunque lo avesse mai sentito suonare prima di allora.

Inizia perciò a diffondersi la leggenda che Robert Johnson avesse stretto un patto con Satana in persona in cambio di un'innaturale abilità nel suonare la chitarra, leggenda in parte alimentata dalle gelosie nei suoi confronti e in parte dall'artista stesso, poiché i suoi testi, spesso improvvisati, sono saturi di contenuti cupi, spettrali e esoterici, a volte con evidenti riferimenti al demonio.

La sua stupefacente tecnica esecutiva (si narra che fosse capace di riprodurre alla perfezione, senza alcuno sforzo, qualsiasi melodia un istante dopo averla ascoltata) lo rende in breve tempo il capostipite di quel movimento noto come Delta blues, sorto nella zona del delta del fiume Mississippi, su cui metterà radici il rock della seconda metà del secolo. La carriera di Johnson raggiunge il suo picco fra il 1936 e il 1937, biennio in cui, in sole cinque sessions di registrazione, incide i 29 pezzi che rappresentano il suo testamento spirituale.


La morte di Johnson è misteriosa così come il resto della sua esistenza. Alcuni dicono che sia stato avvelenato da un barista, un marito geloso delle avances che l'artista aveva fatto a sua moglie durante una performance; altri sostengono che, anni dopo, il diavolo fosse venuto a saldare il suo conto, portando via con sé a soli 27 anni, come poi succederà anche ad altri celebri musicisti (il maledetto Club 27), uno dei talenti più cristallini della storia della musica. Il luogo in cui il suo corpo è sepolto è tuttora ignoto, dal momento che nei dintorni di Greenwood, dove Robert morì, non una ma ben tre lapidi recano il suo epitaffio.

In mezzo a tante incertezze, le uniche cose che sicuramente ci restano di questo straordinario artista sono le sue canzoni e il tributo che molti miti del rock gli hanno successivamente dedicato. Di Robert Johnson rimane impressa un'immagine in particolare, quella di lui che, durante le sessioni di registrazione, suona con la faccia rivolta verso il muro, nascosta a tutti, probabilmente perché non voleva che qualcuno vedesse, come già in una sera di pochi anni prima, quel sinistro bagliore rosso baluginare nei suoi occhi. Lo sguardo di Satana.









sabato 19 dicembre 2015

Roy Keane: un vincente al comando

Secondo un bizzarro ma suggestivo postulato delle teorie di Sigmund Freud sull'inconscio, gli irlandesi sono l'unico popolo al mondo che sia refrattario a qualsiasi approccio psicoanalitico. Indipendentemente dal fatto che questa affermazione sia o meno autentica, essa da sola pone l'Irlanda su un piano diverso rispetto alle altre realtà culturali dell'Occidente.

Pare infatti che il padre della psicoanalisi considerasse l'irlandese medio particolarmente propenso alla fantasia e alla genialità, e perciò difficilmente inquadrabile nei comuni canoni di classificazione dei modelli umani; difficile dargli torto, dal momento che stiamo parlando della patria di Oscar Wilde. C'è però una spiegazione più affascinante, che non può prescindere dalla storia stessa del popolo irlandese.

Ai tempi della sua nascita come Stato autonomo nel 1922 e per il periodo immediatamente successivo, l'Irlanda era, con ottima approssimazione, il Paese più povero dell'Europa occidentale. Decine di migliaia di irlandesi emigrarono alla ricerca di migliori condizioni di vita, soprattutto verso gli Stati Uniti e la "matrigna" Gran Bretagna, spesso senza riuscire a raggiungere gli standard di benessere che tanto avevano auspicato.

Vivere in condizioni simili ti segna dentro, ti tempra, e non è un caso se all'irlandese medio, oggi come in passato, si riconoscono principalmente due caratteristiche: la testardaggine e la combattività. E questo si riflette non solo nella quotidianità, ma anche nello sport, e quindi in quella che, come e più del Cattolicesimo, è la prima religione del Paese: il football.

In effetti, chiunque voglia comprare un francobollo a Dublino avrebbe ottime probabilità di trovarvi effigiato uno dei due uomini che, U2 a parte, hanno contribuito più di ogni altro a mettere la terra di San Patrizio sulla mappa. Il primo è Oscar Wilde, uno dei pochi nella storia dell'umanità che siano riusciti a spiegare al mondo la definizione di talento senza necessariamente doverla enunciare; l'altro è una persona il cui cognome è, con tutta probabilità, l'anglicizzazione dell'originale gaelico Cathàin, che tradotto significa "battaglia". E mai cognome potrebbe essere più azzeccato per uno come Roy Maurice Keane.

GLI INIZI - Colui che diventerà il capitano più vincente della storia del Manchester United nasce a Mayfield, sobborgo di Cork, nel 1971, quartogenito di Maurice "Mossie" Keane e Marie Lynch. Il padre, dopo essere stato un discreto calciatore in diversi club locali, sbarca il lunario svolgendo svariate mansioni; lui, Roy, si destreggia fra la boxe, sport in cui eccelle nonostante la stazza minuta, e il calcio, dove già in tenera età randella diligentemente nelle file del Rockmount.

Fin dall'inizio si intuisce che Roy non è come gli altri. Non c'è avversario che non lo tema, sia sul ring che sul rettangolo verde; tutti sono sconcertati dalla sua furia agonistica, dal modo in cui si danna per rincorrere il pallone, come se non gli importasse di morire in campo, pur di ottenere la vittoria. Eppure anche lui, come molti altri campioni predestinati, ha ricevuto molte porte sbattute in faccia. La prima bocciatura arriva all'età di 14 anni, quando coach Ronan Scally lo scarta a un provino, ritenendo il suo fisico troppo gracile e inadeguato a reggere l'urto dei ruvidi centrocampisti britannici.

Ma Keane ha il fuoco dentro. Di andare a scuola non se ne parla, così a 15 anni molla tutto e va a lavorare; nel frattempo, sostiene provini su provini con vari club, sia irlandesi che inglesi, arrivando perfino ad autopubblicizzarsi nella speranza di ottenere un ingaggio. E finalmente, nel 1989, arriva la grande occasione, perché i Cobh Ramblers, squadra semiprofessionistica della sua città, si accorgono di lui.

E' una tappa fondamentale nella carriera di Keane. Non solo ha la possibilità, per la prima volta, di allenarsi quotidianamente come un vero professionista; i Ramblers rappresentano per lui, oltre che un'ottima palestra, anche una formidabile vetrina con vista Premiership. Peraltro, dato che nelle partite sposta discretamente gli equilibri, il mister non esita a schierarlo sia con le giovanili che con la prima squadra, e ogni fine settimana Roy gioca doppio.






BOX TO BOX - E' solo questione di tempo perché qualcuno si accorga di lui, e infatti nel 1990 arriva la grande occasione. Mr. Noel McCabe, osservatore del Forest, chiama da Nottingham per assicurare a una nobile decaduta della Premier le prestazioni del giovane Keane.

Sì, ma chi guida il Forest in questo periodo?

E' un personaggio che per qualunque inglese che mastichi calcio non ha bisogno di presentazioni, meravigliosamente effigiato già in tempi recenti da Tom Hooper in un fantastico film, "Il Maledetto United", tratto dall'omonimo libro, un must per tutti i romantici del pallone. Ci basti sapere che il suo nome è Brian Clough, probabilmente il miglior manager inglese di tutti i tempi.


Clough e Keane parlano esattamente la stessa lingua, e non mi riferisco necessariamente all'idioma di Shakespeare; sono entrambi figli della working class, sono estremamente infiammabili, e soprattutto venderebbero le rispettive mamme pur di vincere una partita. Due così devono per forza essere alla stessa pagina, e lo resteranno anche dopo che Clough, imbufalito per un errore del suo miglior giocatore durante un match di FA Cup contro il Crystal Palace, lo prende (non metaforicamente) a pugni negli spogliatoi.

Il Forest è la prima esperienza di livello di Keane, ma è evidente che, dopo qualche anno, Nottingham inizi a stargli stretta, anche perchè nel frattempo la squadra è retrocessa e Roy ha messo a referto il primo gettone di presenza in Nazionale maggiore; da qui a fine carriera ne collezionerà altri 66, conditi da 9 reti. Così, dopo un tentativo di transfer al Blackburn andato male, ecco passare davanti a lui il treno United. Nei primi anni '90 i Red Devils di Manchester, sotto l'egida di Alex Ferguson in panchina e di Éric Cantona sul terreno di gioco, sono prepotentemente in ascesa, e Roy vede in questo progetto l'occasione per imporsi definitivamente. Nell'estate del 1993 "Keano" approda nel club in cui fino a poco tempo prima giocava Bryan Robson, uno dei suoi idoli di ragazzino.


UNITED WE STAND - Keane calcherà il verde prato di Old Trafford per i successivi 12 anni, molti dei quali trascorsi con la fascia di capitano al braccio. Scenderà in campo in partite ufficiali con lo United per 480 volte, segnando 51 gol e vincendo tutto ciò che era possibile vincere in campo nazionale e internazionale. Il suo approccio al gioco è feroce, ogni partita vederlo giocare è uno psicodramma; come in quella semifinale di ritorno di Champions League nel 1999 a Torino contro la Juventus, in cui trascina fisicamente la sua squadra a una rimonta che sembrava impossibile. Quella coppa lo United la vincerà in una delle partite più incredibili che si ricordi, rimontando due gol in pieno recupero a un Bayern Monaco completamente attonito, dopo aver incassato colpi per tutti i novanta minuti, come un pugile all'angolo sull'orlo del collasso. Poco importa che Roy non fosse fisicamente presente in campo quella sera, causa squalifica; si rifarà pochi mesi dopo, segnando l'unico e decisivo gol nella finale di Intercontinentale contro il Palmeiras, portando i Diavoli Rossi sul tetto del mondo per la prima volta nella loro storia. Neanche George Best era riuscito nell'impresa.

Keane non è un capitano che fa gruppo; non porta i compagni a cena fuori, odia il mainstream e tutto il glamour che circonda il mondo del pallone. E' uno che, il giorno del matrimonio di David Beckham, preferisce andare a farsi una birra al "Bleeding Wolf", il pub che ha eletto a sua seconda dimora sin dai primi mesi trascorsi in North West England. I suoi compagni hanno paura di lui, alcuni persino lo odiano; recentemente, Rio Ferdinand non lo ha incluso nella sua top 11 ideale, e non credo per demeriti calcistici.


In Nazionale, nel 2002 abbandona il ritiro durante i Mondiali di Corea-Giappone per aver messo alla gogna il C.T. Mick McCarthy davanti all'intera squadra e allo staff tecnico, pronunciando le testuali parole: 
"Mick sei un bugiardo, un fottuto segaiolo, eri un giocatore mediocre e sei un tecnico mediocre; l' unico motivo per cui ho a che fare con te è perché in qualche modo alleni la squadra del mio Paese, e non sei nemmeno irlandese, ma un bastardo inglese".
Eppure nessuno, nemmeno Beckham o Ferguson (che nel frattempo ha acquisito il titolo di baronetto) incarna lo spirito di quel Manchester United meglio di lui, perché lui è l'uomo vitruviano al centro del progetto. 

Certo, non manca il rovescio della medaglia, e questo suo modo sanguigno di vivere il campo e il gioco spesso gli si ritorce contro. For further information, chiedere ad Alf- Inge Haaland o Patrick Vieira. Il primo se lo vide arrivare addosso a tacchetti spianati, dritto sul ginocchio destro; la vendetta per un diverbio in una partita di quattro anni prima, nel corso della quale Roy si ruppe i legamenti. Risultato: Keane si beccò 3 giornate di squalifica, cui poi se ne sommarono altre 5 visto che lui stesso candidamente ammise che il gesto era premeditato; Haaland invece il campo non lo rivedrà mai più. Quanto a Vieira, vederselo contro aveva su Roy più o meno lo stesso effetto che una muleta rossa ha su un toro inferocito, e dire che nelle partite di inizio millennio fra United e Arsenal ci fosse elettricità in mediana è un eufemismo. Eppure, a giudicare dal programma TV Keane & Vieira - Best of Enemies, recentemente andato in onda in Inghilterra, oggi potremmo addirittura sperare di trovarli insieme al pub.


PASSO D'ADDIO - La carriera di Roy allo United finisce nel 2005, e non in maniera banale; Ferguson lo ritiene un giocatore finito e lo relega in panchina, lui non ci sta e, a novembre, se ne va sbattendo la porta. Si accasa quindi al Celtic Glasgow, coronando il suo sogno di giocare con quella che era la sua squadra del cuore da piccolo; ma le anche scricchiolano e, alla fine della stagione, chiude con il calcio giocato. Intraprenderà una carriera da allenatore che non rende giustizia a uno dei centrocampisti difensivi più forti degli ultimi venti anni.

Pur essendo stato un giocatore talvolta discusso, al momento di appendere gli scarpini al chiodo poche sono state le voci di dissenso nei suoi confronti, persino da parte di coloro con cui c'erano stati attriti in precedenza. Darren Fletcher, che Keane aveva pubblicamente accusato di scarso impegno poco prima di abbandonare lo United, lo indicò come "il giocatore più dotato nel passare il pallone con cui abbia mai giocato", a sottolineare le qualità tecniche di colui che, agli occhi di stampa e addetti ai lavori, appariva principalmente come un mediano di interdizione.

Sir Alex Ferguson, cui Keane non avrebbe più rivolto la parola dopo l'addio a Manchester, se non in termini poco amichevoli e sempre attraverso i media (ricambiato), spese per lui le seguenti parole:
"Se mettessi Roy Keane come rappresentante del Manchester United in uno scontro uno contro uno, vinceremmo il Derby, la Premiership, una gara di barche e qualsiasi altra competizione. Possiede qualcosa di incredibile". 

E i tifosi cosa dicono di lui? Difficile riassumere in poche parole i loro sentimenti per una bandiera che tanto a lungo li ha rappresentati. Mi affido perciò ai risultati che ho trovato cercando il suo nome su YouTube; fra i video che riassumono i momenti più significativi della sua carriera, ce n'è uno intitolato "Roy Keane - The Real Captain Fantastic". E se è questo il responso del popolo del calcio, non sarò certo io a contraddirlo.