lunedì 11 luglio 2016

Eterni secondi

In qualunque sport, le competizioni ad eliminazione diretta sono spesso quanto di più antimeritocratico possa esistere, e forse anche per questo sono così imprevedibili ed affascinanti. In una manciata di minuti, a volte anche meno, si concentra tutto l'impegno profuso dagli atleti in anni di fatica e sudore.

Neanche il calcio fa eccezione alla regola per cui, spesso e volentieri, vediamo degli emeriti sconosciuti alzare la Coppa del Mondo o vincere fior di trofei in seno a un collettivo che funziona. D'altra parte, capita altrettanto frequentemente vedere giocatori nel pieno della loro forma e maturazione calcistica chiudere la stagione senza l'ombra di un trofeo a livello di squadra. Quest'anno è successo ad Antoine Griezmann, il "piccolo diavolo" che con i suoi gol aveva fatto sognare i tifosi dell'Atletico Madrid prima e quelli della natìa Francia poi, ma che ha dovuto inchinarsi al destino a pochi metri dal traguardo.
Poche settimane prima, dall'altra parte dell'Atlantico, un altro piccoletto dal mancino fatato viveva il suo personale dramma sportivo; Lionel Messi, fenomeno del calcio moderno e uno dei giocatori più vincenti della storia, sia a titolo personale che di club, toppava per l'ennesima volta la vittoria di un titolo con la sua Nazionale, sbagliando un rigore determinante per l'esito di una delle partite più importanti della sua vita.

Storie parallele di due giocatori che, al di là della fisionomia e delle caratteristiche tecniche, hanno in comune molto più di quanto suggerisca la loro diversa origine. Entrambi, infatti, sono stati "rifiutati" calcisticamente dal Paese che li aveva visti nascere e crescere; troppo piccoli e gracili per poter competere ad alti livelli, si diceva. Entrambi sono stati costretti a rincorrere un destino che sembrava impossibile, e lo hanno fatto nella stessa terra di adozione: la Spagna. La storia di Messi e del suo legame con il Barcellona e la Catalogna è nota; quella di Griezmann è invece vincolata alla Real Sociedad, club che lo porta dall'altra parte dei Pirenei quando ha solo 14 anni. L'esordio in prima squadra arriva nel 2009, in Segunda Divisiòn, e la prima rete poco dopo, il 29 settembre dello stesso anno. Da quel momento è un'escalation, e di lì a pochi anni il giovane Antoine diventa uno dei talenti più puri espressi dal campionato spagnolo.

I principali club di Spagna e d'Europa non possono farsi sfuggire un giocatore del genere, e infatti ben presto arriva la chiamata dell'Atletico Madrid di Diego Pablo Simeone. L'impatto è devastante, le petit diable segna subito 22 gol al primo anno con i colchoneros, ripetendosi l'anno successivo; dato ancora più clamoroso se si considera lo stile di gioco voluto dal tecnico argentino, impostato sull'organizzazione difensiva capillare e sulle ripartenze, e quindi non in grado di offrire alle punte la stessa mole di occasioni da gol che hanno due squadre come Barcellona e Real Madrid. Antoine canta e porta la croce; non solo si conferma un efficacissimo realizzatore, ma diventa anche determinante in fase di pressing e di rifinitura.

Verso maggio 2016, però, iniziano le prime delusioni. L'Atletico, fino alla fine in corsa per il titolo, perde colpi nelle ultime partite di campionato a vantaggio del Barcellona, che si aggiudica la Liga all'ultimo respiro. Anche la finale di Champions contro gli odiatissimi rivali del Real Madrid si rivela una delusione bruciante, con Griezmann che nei 90' regolamentari calcia un rigore contro la traversa; la lotteria finale dei rigori sarà poi fatale per i biancorossi.

Due settimane dopo, reduce da una stagione dal sapore agrodolce, Antoine approda agli Europei di Francia. Vi giunge con la determinazione di chi è andato via di casa presto e perciò sente di dovere qualcosa al proprio Paese, che gli ha dato i natali ma non lo ha visto crescere come uomo e come giocatore; preoccupazione condivisa, a qualche migliaio di chilometri di distanza, dal suo "alter ego" Messi, che si gioca la Copa America da strafavorito con la sua Argentina.
Antoine, come Leo, sul campo ha una marcia in più rispetto agli avversari; segna a raffica e porta di peso la sua Francia in finale contro la sorpresa Portogallo, mettendo a referto 6 reti in altrettante partite. Ma ancora una volta il destino si rivela beffardo e, in una finale opaca, l'unica vera occasione capitata sulla testa del folletto francese sfuma pochi centimetri oltre la traversa. La stessa, maledetta, impietosamente ferma traversa che, in una serata americana di qualche giorno prima, aveva visto impennarsi verso la tribuna un pallone malamente calciato dal giocatore più forte del mondo.
Per ogni perdente di successo, abbiamo un vincitore inaspettato, e nemmeno questa storia sfugge alla regola. Capita così che, poco prima dei calci di rigore, un tale Éderzito António Macedo Lopes (per gli amici Éder, per tutti gli altri un signor nessuno), guineano naturalizzato portoghese, indovini il tiro della domenica e porti la sua Nazionale in vetta all'Europa per la prima volta nella sua storia. Oppure che una squadra che agli Europei neanche doveva esserci, l'Islanda, rimandi a casa i ben più quotati inglesi e riesca ad arrivare ai quarti di finale di una competizione internazionale alla quale mai prima aveva partecipato. Lo sport, in questo senso, è una meravigliosa lezione di vita; non sai mai cosa aspettarti, ma puoi stare certo che, lavorando duramente, si possono raggiungere traguardi insperati.

Onore, quindi, a tutti i vincitori, al di là dei meriti individuali. Mai dimenticarsi, però, del valore degli sconfitti, perché non è un rigore sbagliato o un gol mancato ciò che distingue un giocatore ordinario da un campione; per giudicare, bisogna aspettare la fine della storia. E chissà, magari un giorno anche gli eterni secondi arriveranno primi.
  

sabato 12 marzo 2016

Outsiders

Molti tifosi e addetti ai lavori sono concordi nell'affermare che il Campionato di calcio inglese sia il più bello del mondo. Ma perché?

Una volta, qualche anno fa, sono entrato a Old Trafford, il tempio sacro dei Red Devils del Manchester United, e mi sono accorto che lì dentro si respira un'aria diversa. Il prato verde e perfettamente curato, le tribune senza barriere, a pochi metri dalle quali ogni domenica si fronteggiano senza risparmiarsi alcuni fra i più talentuosi campioni del mondo, lo stadio sempre pieno, qualunque sia il peso specifico della partita in corso; certo, la cornice è affascinante. Ma deve esserci dell'altro, e ce ne accorgiamo dando un'occhiata alla classifica del campionato in corso.


Siamo a nove giornate dal termine. In vetta, a +5 sulla diretta inseguitrice, c'è una squadra, il Leicester, che quest'estate si poneva come obiettivo primario la salvezza, e che invece ha mantenuto il comando praticamente per tutta la stagione appena trascorsa, addirittura irridendo a casa loro i miliardari sceicchi del Manchester City, dati per favoriti a inizio torneo. Al secondo posto, i londinesi del Tottenham Hotspur, che pur potendo contare attualmente su un ricco apparato societario e su una rosa non priva di elementi di talento, non vincono un campionato dal 1961. Terzo, l'Arsenal, squadra certamente più blasonata delle due che la precedono in classifica, ma che, sotto l'egida di mister Wenger, al netto delle proprie possibilità, fin troppo spesso negli ultimi anni è stata ridotta a comprimaria dei vari Manchester United, Chelsea e Manchester City, e quindi presumibilmente assetata di rivincita.

Per questa sua imprevedibilità e per la grande varietà di squadre potenzialmente coinvolte nella lotta al titolo, il Campionato inglese catalizza l'attenzione di così tanti appassionati, e non solo in tempi recenti. Nel solo dopoguerra ben 16 squadre diverse si sono laureate Campione d'Inghilterra almeno una volta; tutt'altra storia rispetto al campionato italiano, in cui, a parte sporadiche eccezioni, l'hanno più o meno sempre fatta da padrone la Juventus e le due milanesi. Fra esse, notiamo anche candidate piuttosto improbabili se viste nell'ottica odierna, come il Wolverhampton o il Burnley. Eppure, dietro a questi semplici nomi spesso si nascondono delle meravigliose storie di sport.


Come spesso accade, alle vittorie delle squadre "piccole" si associa la figura di un grande condottiero. E' stato così per l'Ipswich Town che, nel 1962, conquistò il suo primo (e finora unico) titolo, facendo esplodere di gioia l'East Anglia. In cabina di regia, Alf Ramsey, che a partire da quel trionfo fece strada; quattro anni dopo, siederà sulla panchina della Nazionale inglese dei due Bobby, Charlton e Moore, conducendola al suo primo e unico successo mondiale.

Ma se la storia dell'Ipswich Town è stupefacente, è poco o nulla a confronto di quella delle due squadre che salirono alla ribalta dal nulla durante il decennio successivo. Entrambe sono legate alla stessa persona, a mio parere il più grande allenatore della storia del calcio inglese: Brian Clough. Ex calciatore come Ramsey, uomo dal carattere sanguigno, a più riprese polemico coi media e con gli avversari, fra cui ricordiamo soprattutto il suo acerrimo rivale Don Revie, che guidò un'altra grande oggi decaduta, il Leeds, a ripetuti successi; potremmo semplicisticamente definire Clough un antesignano di Josè Mourinho, con la non trascurabile differenza di non aver mai avuto, a differenza del portoghese, la possibilità di contare su ricchi investitori per rifarsi la rosa. Al suo nome sono legate due delle favole più belle e improbabili del calcio d'Oltremanica.


In primo luogo, il Derby County. La squadra galleggia fra la Seconda e la Terza Divisione per quindici anni, fino a che non viene affidata a Clough nel 1967. Nel giro di due anni, arriva la promozione in First Division; la Cenerentola d'Inghilterra sorprende tutti e, al primo tentativo, aggancia il quarto posto. Ma nemmeno il tifoso più ottimista può immaginare cosa succederà in seguito; i Rams volano e, nel 1972, conquistano il primo titolo nazionale della loro storia. L'anno successivo, in Coppa dei Campioni, saranno sconfitti soltanto in semifinale dalla Juventus, peraltro favorita da un arbitraggio discutibile che porterà un infuriato Clough a definire gli italiani "cheating bastards", bastardi imbroglioni.


Il Derby County, andato via il suo manager, sulla scia dei recenti successi ripete l'exploit del 1972 due anni dopo, prima di sprofondare nuovamente nell'anonimato. Clough invece farà ancora meglio, e lo farà con un'altra squadra di seconda fascia, il Nottingham Forest. Assunto il comando nel 1975, in due anni la conduce in Prima Divisione, e l'anno seguente vince subito il titolo. E' l'inizio di un'epopea incredibile; nei due anni seguenti, il Forest conquista altrettante Coppe dei Campioni, e a tutt'oggi risulta l'unico club ad aver vinto più massimi titoli europei che campionati nazionali.


Nel 1992 la vecchia First Division inglese si converte nell'odierna Premier League per motivi legati ai diritti televisivi e alle sponsorizzazioni; cambia il format, ma non le sorprese. Ne è un esempio la stagione 1994-95, al termine della quale il Blackburn Rovers del tandem d'attacco Shearer-Sutton (49 gol in due a fine campionato) è Campione d'Inghilterra, vincendo solo all'ultima giornata la strenua resistenza del Manchester United di Alex Ferguson e dei vari Keane, Giggs, Scholes e Cantona. Per i Rovers è il primo titolo dal lontano 1914.


Dalla fantastica vittoria di Shearer e compagni, la sempre più commercializzata Premier League è sempre stata dominata dalle Big Four (Manchester City e United, Arsenal, Chelsea)...almeno fino a questa stagione. La storia del Campionato inglese ci ha insegnato che nello sport sognare non è vietato, e sappiamo tutti che prima o poi la storia, in un modo o nell'altro, finisce per ripetersi. Speriamo quindi che Claudio Ranieri e le sue Foxes ci dimostrino ancora una volta che nel calcio, come nella vita, i miracoli possono avvenire.





giovedì 7 gennaio 2016

El dueño del area chica

In quell'incredibile odissea che è una partita di calcio, il portiere recita senza dubbio la parte dell'eroe romantico. Egli è un funambolo sospeso su un filo invisibile, conscio del fatto che il minimo errore lo getterà nel baratro, l'ago della bilancia nel decretare il successo o la sconfitta della propria squadra, l'ultimo, solitario baluardo contro avversari assetati di vittoria e di gol.

Da par suo, il portiere non fa niente per nascondere questa sua diversità allo spettatore. Spesso la divisa che lo contraddistingue è una vera e propria sfida al nemico, in tutte le possibili sfumature di colore e significato; interamente nera, come il terrore che il sovietico Lev Jašin incuteva agli attaccanti che si trovavano faccia a faccia con lui, oppure variopinta, come quella che l'irridente Nazionale messicano Jorge Campos indossava nelle sue apparizioni in mondovisione.


Si dice che per sopportare il peso di tutte le responsabilità che un tale ruolo comporta, il portiere debba necessariamente essere un po' pazzo, e questa è un'opinione condivisibile; dove sarebbero arrivati i vari Buffon, Neuer, Zoff, Zenga senza uno spiccato carisma e una buona dose di sana incoscienza? Eppure, c'è una parte del mondo che ha fatto di questa etichetta un dogma inattaccabile, uno sberleffo al senso dell'ordine, della razionalità, del fatto che "il risultato viene sempre prima dello spettacolo" tipico del calcio europeo. Già, perché in quel matto continente che è l'America Latina, il portiere non è semplicemente el arquero, el dueño del area chica, ossia il proprietario dell'area di rigore; è molto, molto di più.

Il Sudamerica è un continente inquieto, e il fùtbol è il linguaggio comune ai popoli che lo abitano; durante il secolo appena trascorso, sangue e pallone si sono spesso mescolati. Per molti dei regimi totalitari e militari che si sono succeduti al comando dei vari Paesi dell'area, il successo della rispettiva Nazionale in una competizione come il Mondiale poteva rappresentare una legittimazione del potere agli occhi del popolo e dell'opinione pubblica. Negli stadi, la violenza spesso dilaga; le trasferte delle squadre europee in Argentina e Brasile nelle edizioni degli anni '60 e '70 della Coppa Intercontinentale si trasformavano frequentemente in una caccia all'uomo (e infatti, a un certo punto si decise che era meglio far giocare una partita secca in campo neutro).

Non c'è quindi da sorprendersi se, in un contesto così singolare, emergono delle figure altrettanto particolari. Come sempre accade, anche in quest'ambito abbiamo dei precursori, e uno di quelli con la P maiuscola è argentino e si chiama Hugo Orlando Gatti, detto "El Loco".



Probabilmente si è perso il conto di quanti calciatori siano stati così soprannominati nel corso di tanti anni, e questo non rende affatto giustizia al personaggio. Già, perché Hugo Gatti è veramente matto da legare. In una delle sue prime partite, verso la metà degli anni '60, gioca nelle file del River Plate contro gli acerrimi rivali del Boca Juniors, squadra in cui era cresciuto calcisticamente. Dagli spalti dietro la sua porta, come sempre accade in Argentina, piove di tutto, compresa una scopa. Senza scomporsi, nel bel mezzo della partita, Gatti afferra la scopa e si mette a spazzare la propria area di rigore. Altro momento memorabile, una tranquilla partita contro l'Independiente; troppo tranquilla. "El Loco", avvilito dalla pochezza offensiva degli avversari, si abbassa i calzettoni, si toglie le scarpe e va a sedersi sulla traversa fino alla fine del match. In seguito, senza peli sulla lingua dichiara:
"Non stava accadendo nulla. E mi stavo annoiando a morte."



E poi c'è un'altra caratteristica che rende Gatti diverso dagli altri portieri, almeno all'epoca; a lui l'area di rigore sta stretta. In ogni partita, appena ne ha l'occasione, mette palla a terra e scappa via, verso la metà campo avversaria, dribblando quanti più avversari possibile. Di questo si ricorderà molto bene il colombiano René Higuita (sì, quello del colpo dello scorpione), il quale, a cavallo fra gli anni '80 e '90, è l'emblema dell'Atletico Nacional di Medellìn, squadra famosa in quegli anni sia per le numerose vittorie in campo nazionale e internazionale, sia per la famigerata associazione con Pablito Escobar, il re della cocaina.

                           

Nemmeno Higuita ha tutte le rotelle al loro posto, e questo non sempre va a beneficio della propria squadra. Italia '90, ottavi di finale; si gioca Colombia - Camerun e la partita va ai supplementari. Roger Milla segna l'1-0, ma a René questo non sembra importare più di tanto. Come se fosse a giocare al campetto con gli amici, stoppa tranquillamente un pallone fuori dalla sua area di rigore, con Milla che gli si fa incontro. Tenta una finta, ma stavolta gli va male; Milla intercetta e deposita in rete con la stessa facilità con cui George Best si faceva un whisky. La Colombia va a casa; probabilmente un altro al suo posto sarebbe stato linciato, ma è Higuita, ragazzi. Prendere o lasciare. E i colombiani, saggiamente, porgono l'altra guancia.

A fine carriera, lo score di Higuita in partite ufficiali sarà migliore di quello di molti giocatori di movimento; ben 55 gol in totale fra squadre di club e Nazionale. Il suo avvento inaugura in Sudamerica l'era dei portieri goleador: José Luis Chilavert, Jorge Campos, Rogerio Ceni. Quest'ultimo domina questa speciale classifica con 131 segnature in carriera; roba da fare invidia a un attaccante!

Con il ritiro di Ceni, soltanto pochi mesi fa, si è chiusa un'epoca anche per il calcio sudamericano. L'epoca in cui il portiere non è solo un ruolo, ma innanzitutto una forma mentis, un modo di essere; quello di un uomo che rifiuta qualunque tipo di schema o di impostazione, che cerca sempre di superare i limiti che gli sono stati imposti. In un calcio arido, che è sempre meno un gioco e sempre più un business, dove spesso la tattica predomina a discapito della creatività, non ci resta che sperare nei futuri eredi di questi straordinari personaggi. Perché bisogna sempre ricordare che il football non è soltanto competizione ma anche arte, e l'arte non può sopravvivere senza quel pizzico di follia che costantemente la alimenta.



martedì 22 dicembre 2015

Robert Johnson: il chitarrista del Diavolo

Piantagione di Dockery, Mississippi, primi anni '30.

E' mezzanotte. Due ombre si fronteggiano in silenzio, squadrandosi reciprocamente, in uno spiazzo desolato nel cuore di un luogo che, per lunghi anni, aveva visto uomini smarrire l'essenza stessa di ciò che, fino ad allora, li aveva resi tali. All'improvviso, una voce profonda penetra l'oscurità come un maglio.

"Che cos'hai per me, Robert?"

Robert porge allo sconosciuto lo strumento che reca con sé, una vecchia chitarra logorata dall'uso e dal tempo.

"Sono venuto a venderti la mia anima".

Lo sconosciuto imbraccia la chitarra e la accorda meticolosamente. Pochi fraseggi, suonati con precisione e velocità innaturali; poi, senza una parola, la riconsegna al proprietario. In silenzio, le due figure si congedano e se ne vanno ognuna per la propria strada, inghiottite da una notte nera come un pozzo senza fondo.


La sera seguente, un giovane di colore fa il suo ingresso in un juke joint, uno dei tanti locali malfamati della città, dove whisky della peggior qualità e buona musica formano un connubio indissolubile. Quella sera, però, è diverso dal solito; i suoi amici notano un bagliore sinistro nei suoi occhi, la luce di chi è sicuro di sé e delle sue capacità e vuole dimostrarlo al mondo.


Senza dire una parola, sale su un derelitto palco da qualche parte in fondo al locale, in mezzo al fumo e alle risate degli ubriachi; si siede, chitarra a tracolla, e comincia a suonare. I testimoni presenti quella sera furono concordi nell'affermare più o meno ciò che, alcuni decenni dopo, dirà Eric Clapton, un altro che con le sei corde se la cavava piuttosto bene:
"Non ho mai trovato nulla di più profondamente intenso. La sua musica rimane il pianto più straziante che penso si possa riscontrare nella voce umana."
Dietro a quella figura misteriosa si cela uno dei più grandi enigmi della storia recente degli Stati Uniti: il suo nome è Robert Leroy Johnson.


Il protagonista di questo racconto nasce nel 1911 ad Hazlehurst, in Mississippi, da una relazione extraconiugale della madre con un bracciante della zona, Noah Johnson. Nel corso degli anni, la madre cambia due mariti, il che, anche per via dei continui spostamenti derivati dall'instabilità della vita familiare, rende l'infanzia di Robert e dei suoi dieci fratelli piuttosto volatile.

Per sfuggire ai disagi che la povertà estrema e la sua condizione di afroamericano in una società segregata gli riservano, Robert trova ben presto una valvola di sfogo: la musica. Uno dei fratelli lo avvia in un primo momento all'armonica e, in seguito, alla chitarra, insegnandogli i primi accordi. Fin da subito il ragazzino mostra una dedizione totale verso lo strumento; si esercita in maniera ossessiva, suonando per giornate intere, senza però ottenere grossi risultati. Ciononostante, convinto che fosse quella la sua vera vocazione, abbandona lo studio, per cui non aveva mai mostrato grande interesse, e si mette in viaggio per incontrare i più grandi musicisti dell'epoca.


Giunge quindi a Memphis, e qui conosce Virginia Travis, una ragazza di sedicici anni che in breve tempo diverrà sua moglie. Nel frattempo, stringe amicizia con alcuni fra i più influenti chitarristi dell'epoca, fra i quali Son House e Charley Patton, con cui inizia a collaborare. Tuttavia, per volenteroso che fosse, Robert inizialmente non mostra la benché minima traccia di talento, tanto che gli stessi House e Patton, insieme ai quali aveva avuto modo di esibirsi, dissero di lui:
"Robert imbracciava la chitarra e iniziava a strimpellare solo per fare rumore, e alla gente non piaceva, tanto che venivano a dirci "Perché non andate a dirgli di smetterla? Ci fa impazzire". Nemmeno un cane sarebbe rimasto ad ascoltarlo!".
Nessuno immagina che ben presto Robert li avrebbe smentiti tutti.

Soltanto un anno dopo il matrimonio, la moglie di Johnson muore durante il parto, e con lei anche la creatura che portava in grembo; l'evento lo fa precipitare in uno stato di profonda depressione. Robert inizia a girovagare senza meta per le città del Mississippi come uno sbandato, trovando rifugio nell'alcol e nella musica. I suoi continui spostamenti ne fanno perdere le tracce, e di lui non si hanno più notizie per molti mesi.


Quando ormai in molti lo avevano dato per morto, ecco che Robert ricompare improvvisamente. Qualcosa però è cambiato in lui; il ragazzo smilzo e gracile degli anni di Memphis si è trasformato in un uomo di ghiaccio, con uno sguardo penetrante e un fascino magnetico. Comincia a esibirsi frequentemente nei locali del sud del Mississippi, mostrando un talento chitarristico sconosciuto a chiunque lo avesse mai sentito suonare prima di allora.

Inizia perciò a diffondersi la leggenda che Robert Johnson avesse stretto un patto con Satana in persona in cambio di un'innaturale abilità nel suonare la chitarra, leggenda in parte alimentata dalle gelosie nei suoi confronti e in parte dall'artista stesso, poiché i suoi testi, spesso improvvisati, sono saturi di contenuti cupi, spettrali e esoterici, a volte con evidenti riferimenti al demonio.

La sua stupefacente tecnica esecutiva (si narra che fosse capace di riprodurre alla perfezione, senza alcuno sforzo, qualsiasi melodia un istante dopo averla ascoltata) lo rende in breve tempo il capostipite di quel movimento noto come Delta blues, sorto nella zona del delta del fiume Mississippi, su cui metterà radici il rock della seconda metà del secolo. La carriera di Johnson raggiunge il suo picco fra il 1936 e il 1937, biennio in cui, in sole cinque sessions di registrazione, incide i 29 pezzi che rappresentano il suo testamento spirituale.


La morte di Johnson è misteriosa così come il resto della sua esistenza. Alcuni dicono che sia stato avvelenato da un barista, un marito geloso delle avances che l'artista aveva fatto a sua moglie durante una performance; altri sostengono che, anni dopo, il diavolo fosse venuto a saldare il suo conto, portando via con sé a soli 27 anni, come poi succederà anche ad altri celebri musicisti (il maledetto Club 27), uno dei talenti più cristallini della storia della musica. Il luogo in cui il suo corpo è sepolto è tuttora ignoto, dal momento che nei dintorni di Greenwood, dove Robert morì, non una ma ben tre lapidi recano il suo epitaffio.

In mezzo a tante incertezze, le uniche cose che sicuramente ci restano di questo straordinario artista sono le sue canzoni e il tributo che molti miti del rock gli hanno successivamente dedicato. Di Robert Johnson rimane impressa un'immagine in particolare, quella di lui che, durante le sessioni di registrazione, suona con la faccia rivolta verso il muro, nascosta a tutti, probabilmente perché non voleva che qualcuno vedesse, come già in una sera di pochi anni prima, quel sinistro bagliore rosso baluginare nei suoi occhi. Lo sguardo di Satana.









sabato 19 dicembre 2015

Roy Keane: un vincente al comando

Secondo un bizzarro ma suggestivo postulato delle teorie di Sigmund Freud sull'inconscio, gli irlandesi sono l'unico popolo al mondo che sia refrattario a qualsiasi approccio psicoanalitico. Indipendentemente dal fatto che questa affermazione sia o meno autentica, essa da sola pone l'Irlanda su un piano diverso rispetto alle altre realtà culturali dell'Occidente.

Pare infatti che il padre della psicoanalisi considerasse l'irlandese medio particolarmente propenso alla fantasia e alla genialità, e perciò difficilmente inquadrabile nei comuni canoni di classificazione dei modelli umani; difficile dargli torto, dal momento che stiamo parlando della patria di Oscar Wilde. C'è però una spiegazione più affascinante, che non può prescindere dalla storia stessa del popolo irlandese.

Ai tempi della sua nascita come Stato autonomo nel 1922 e per il periodo immediatamente successivo, l'Irlanda era, con ottima approssimazione, il Paese più povero dell'Europa occidentale. Decine di migliaia di irlandesi emigrarono alla ricerca di migliori condizioni di vita, soprattutto verso gli Stati Uniti e la "matrigna" Gran Bretagna, spesso senza riuscire a raggiungere gli standard di benessere che tanto avevano auspicato.

Vivere in condizioni simili ti segna dentro, ti tempra, e non è un caso se all'irlandese medio, oggi come in passato, si riconoscono principalmente due caratteristiche: la testardaggine e la combattività. E questo si riflette non solo nella quotidianità, ma anche nello sport, e quindi in quella che, come e più del Cattolicesimo, è la prima religione del Paese: il football.

In effetti, chiunque voglia comprare un francobollo a Dublino avrebbe ottime probabilità di trovarvi effigiato uno dei due uomini che, U2 a parte, hanno contribuito più di ogni altro a mettere la terra di San Patrizio sulla mappa. Il primo è Oscar Wilde, uno dei pochi nella storia dell'umanità che siano riusciti a spiegare al mondo la definizione di talento senza necessariamente doverla enunciare; l'altro è una persona il cui cognome è, con tutta probabilità, l'anglicizzazione dell'originale gaelico Cathàin, che tradotto significa "battaglia". E mai cognome potrebbe essere più azzeccato per uno come Roy Maurice Keane.

GLI INIZI - Colui che diventerà il capitano più vincente della storia del Manchester United nasce a Mayfield, sobborgo di Cork, nel 1971, quartogenito di Maurice "Mossie" Keane e Marie Lynch. Il padre, dopo essere stato un discreto calciatore in diversi club locali, sbarca il lunario svolgendo svariate mansioni; lui, Roy, si destreggia fra la boxe, sport in cui eccelle nonostante la stazza minuta, e il calcio, dove già in tenera età randella diligentemente nelle file del Rockmount.

Fin dall'inizio si intuisce che Roy non è come gli altri. Non c'è avversario che non lo tema, sia sul ring che sul rettangolo verde; tutti sono sconcertati dalla sua furia agonistica, dal modo in cui si danna per rincorrere il pallone, come se non gli importasse di morire in campo, pur di ottenere la vittoria. Eppure anche lui, come molti altri campioni predestinati, ha ricevuto molte porte sbattute in faccia. La prima bocciatura arriva all'età di 14 anni, quando coach Ronan Scally lo scarta a un provino, ritenendo il suo fisico troppo gracile e inadeguato a reggere l'urto dei ruvidi centrocampisti britannici.

Ma Keane ha il fuoco dentro. Di andare a scuola non se ne parla, così a 15 anni molla tutto e va a lavorare; nel frattempo, sostiene provini su provini con vari club, sia irlandesi che inglesi, arrivando perfino ad autopubblicizzarsi nella speranza di ottenere un ingaggio. E finalmente, nel 1989, arriva la grande occasione, perché i Cobh Ramblers, squadra semiprofessionistica della sua città, si accorgono di lui.

E' una tappa fondamentale nella carriera di Keane. Non solo ha la possibilità, per la prima volta, di allenarsi quotidianamente come un vero professionista; i Ramblers rappresentano per lui, oltre che un'ottima palestra, anche una formidabile vetrina con vista Premiership. Peraltro, dato che nelle partite sposta discretamente gli equilibri, il mister non esita a schierarlo sia con le giovanili che con la prima squadra, e ogni fine settimana Roy gioca doppio.






BOX TO BOX - E' solo questione di tempo perché qualcuno si accorga di lui, e infatti nel 1990 arriva la grande occasione. Mr. Noel McCabe, osservatore del Forest, chiama da Nottingham per assicurare a una nobile decaduta della Premier le prestazioni del giovane Keane.

Sì, ma chi guida il Forest in questo periodo?

E' un personaggio che per qualunque inglese che mastichi calcio non ha bisogno di presentazioni, meravigliosamente effigiato già in tempi recenti da Tom Hooper in un fantastico film, "Il Maledetto United", tratto dall'omonimo libro, un must per tutti i romantici del pallone. Ci basti sapere che il suo nome è Brian Clough, probabilmente il miglior manager inglese di tutti i tempi.


Clough e Keane parlano esattamente la stessa lingua, e non mi riferisco necessariamente all'idioma di Shakespeare; sono entrambi figli della working class, sono estremamente infiammabili, e soprattutto venderebbero le rispettive mamme pur di vincere una partita. Due così devono per forza essere alla stessa pagina, e lo resteranno anche dopo che Clough, imbufalito per un errore del suo miglior giocatore durante un match di FA Cup contro il Crystal Palace, lo prende (non metaforicamente) a pugni negli spogliatoi.

Il Forest è la prima esperienza di livello di Keane, ma è evidente che, dopo qualche anno, Nottingham inizi a stargli stretta, anche perchè nel frattempo la squadra è retrocessa e Roy ha messo a referto il primo gettone di presenza in Nazionale maggiore; da qui a fine carriera ne collezionerà altri 66, conditi da 9 reti. Così, dopo un tentativo di transfer al Blackburn andato male, ecco passare davanti a lui il treno United. Nei primi anni '90 i Red Devils di Manchester, sotto l'egida di Alex Ferguson in panchina e di Éric Cantona sul terreno di gioco, sono prepotentemente in ascesa, e Roy vede in questo progetto l'occasione per imporsi definitivamente. Nell'estate del 1993 "Keano" approda nel club in cui fino a poco tempo prima giocava Bryan Robson, uno dei suoi idoli di ragazzino.


UNITED WE STAND - Keane calcherà il verde prato di Old Trafford per i successivi 12 anni, molti dei quali trascorsi con la fascia di capitano al braccio. Scenderà in campo in partite ufficiali con lo United per 480 volte, segnando 51 gol e vincendo tutto ciò che era possibile vincere in campo nazionale e internazionale. Il suo approccio al gioco è feroce, ogni partita vederlo giocare è uno psicodramma; come in quella semifinale di ritorno di Champions League nel 1999 a Torino contro la Juventus, in cui trascina fisicamente la sua squadra a una rimonta che sembrava impossibile. Quella coppa lo United la vincerà in una delle partite più incredibili che si ricordi, rimontando due gol in pieno recupero a un Bayern Monaco completamente attonito, dopo aver incassato colpi per tutti i novanta minuti, come un pugile all'angolo sull'orlo del collasso. Poco importa che Roy non fosse fisicamente presente in campo quella sera, causa squalifica; si rifarà pochi mesi dopo, segnando l'unico e decisivo gol nella finale di Intercontinentale contro il Palmeiras, portando i Diavoli Rossi sul tetto del mondo per la prima volta nella loro storia. Neanche George Best era riuscito nell'impresa.

Keane non è un capitano che fa gruppo; non porta i compagni a cena fuori, odia il mainstream e tutto il glamour che circonda il mondo del pallone. E' uno che, il giorno del matrimonio di David Beckham, preferisce andare a farsi una birra al "Bleeding Wolf", il pub che ha eletto a sua seconda dimora sin dai primi mesi trascorsi in North West England. I suoi compagni hanno paura di lui, alcuni persino lo odiano; recentemente, Rio Ferdinand non lo ha incluso nella sua top 11 ideale, e non credo per demeriti calcistici.


In Nazionale, nel 2002 abbandona il ritiro durante i Mondiali di Corea-Giappone per aver messo alla gogna il C.T. Mick McCarthy davanti all'intera squadra e allo staff tecnico, pronunciando le testuali parole: 
"Mick sei un bugiardo, un fottuto segaiolo, eri un giocatore mediocre e sei un tecnico mediocre; l' unico motivo per cui ho a che fare con te è perché in qualche modo alleni la squadra del mio Paese, e non sei nemmeno irlandese, ma un bastardo inglese".
Eppure nessuno, nemmeno Beckham o Ferguson (che nel frattempo ha acquisito il titolo di baronetto) incarna lo spirito di quel Manchester United meglio di lui, perché lui è l'uomo vitruviano al centro del progetto. 

Certo, non manca il rovescio della medaglia, e questo suo modo sanguigno di vivere il campo e il gioco spesso gli si ritorce contro. For further information, chiedere ad Alf- Inge Haaland o Patrick Vieira. Il primo se lo vide arrivare addosso a tacchetti spianati, dritto sul ginocchio destro; la vendetta per un diverbio in una partita di quattro anni prima, nel corso della quale Roy si ruppe i legamenti. Risultato: Keane si beccò 3 giornate di squalifica, cui poi se ne sommarono altre 5 visto che lui stesso candidamente ammise che il gesto era premeditato; Haaland invece il campo non lo rivedrà mai più. Quanto a Vieira, vederselo contro aveva su Roy più o meno lo stesso effetto che una muleta rossa ha su un toro inferocito, e dire che nelle partite di inizio millennio fra United e Arsenal ci fosse elettricità in mediana è un eufemismo. Eppure, a giudicare dal programma TV Keane & Vieira - Best of Enemies, recentemente andato in onda in Inghilterra, oggi potremmo addirittura sperare di trovarli insieme al pub.


PASSO D'ADDIO - La carriera di Roy allo United finisce nel 2005, e non in maniera banale; Ferguson lo ritiene un giocatore finito e lo relega in panchina, lui non ci sta e, a novembre, se ne va sbattendo la porta. Si accasa quindi al Celtic Glasgow, coronando il suo sogno di giocare con quella che era la sua squadra del cuore da piccolo; ma le anche scricchiolano e, alla fine della stagione, chiude con il calcio giocato. Intraprenderà una carriera da allenatore che non rende giustizia a uno dei centrocampisti difensivi più forti degli ultimi venti anni.

Pur essendo stato un giocatore talvolta discusso, al momento di appendere gli scarpini al chiodo poche sono state le voci di dissenso nei suoi confronti, persino da parte di coloro con cui c'erano stati attriti in precedenza. Darren Fletcher, che Keane aveva pubblicamente accusato di scarso impegno poco prima di abbandonare lo United, lo indicò come "il giocatore più dotato nel passare il pallone con cui abbia mai giocato", a sottolineare le qualità tecniche di colui che, agli occhi di stampa e addetti ai lavori, appariva principalmente come un mediano di interdizione.

Sir Alex Ferguson, cui Keane non avrebbe più rivolto la parola dopo l'addio a Manchester, se non in termini poco amichevoli e sempre attraverso i media (ricambiato), spese per lui le seguenti parole:
"Se mettessi Roy Keane come rappresentante del Manchester United in uno scontro uno contro uno, vinceremmo il Derby, la Premiership, una gara di barche e qualsiasi altra competizione. Possiede qualcosa di incredibile". 

E i tifosi cosa dicono di lui? Difficile riassumere in poche parole i loro sentimenti per una bandiera che tanto a lungo li ha rappresentati. Mi affido perciò ai risultati che ho trovato cercando il suo nome su YouTube; fra i video che riassumono i momenti più significativi della sua carriera, ce n'è uno intitolato "Roy Keane - The Real Captain Fantastic". E se è questo il responso del popolo del calcio, non sarò certo io a contraddirlo.