sabato 19 dicembre 2015

Roy Keane: un vincente al comando

Secondo un bizzarro ma suggestivo postulato delle teorie di Sigmund Freud sull'inconscio, gli irlandesi sono l'unico popolo al mondo che sia refrattario a qualsiasi approccio psicoanalitico. Indipendentemente dal fatto che questa affermazione sia o meno autentica, essa da sola pone l'Irlanda su un piano diverso rispetto alle altre realtà culturali dell'Occidente.

Pare infatti che il padre della psicoanalisi considerasse l'irlandese medio particolarmente propenso alla fantasia e alla genialità, e perciò difficilmente inquadrabile nei comuni canoni di classificazione dei modelli umani; difficile dargli torto, dal momento che stiamo parlando della patria di Oscar Wilde. C'è però una spiegazione più affascinante, che non può prescindere dalla storia stessa del popolo irlandese.

Ai tempi della sua nascita come Stato autonomo nel 1922 e per il periodo immediatamente successivo, l'Irlanda era, con ottima approssimazione, il Paese più povero dell'Europa occidentale. Decine di migliaia di irlandesi emigrarono alla ricerca di migliori condizioni di vita, soprattutto verso gli Stati Uniti e la "matrigna" Gran Bretagna, spesso senza riuscire a raggiungere gli standard di benessere che tanto avevano auspicato.

Vivere in condizioni simili ti segna dentro, ti tempra, e non è un caso se all'irlandese medio, oggi come in passato, si riconoscono principalmente due caratteristiche: la testardaggine e la combattività. E questo si riflette non solo nella quotidianità, ma anche nello sport, e quindi in quella che, come e più del Cattolicesimo, è la prima religione del Paese: il football.

In effetti, chiunque voglia comprare un francobollo a Dublino avrebbe ottime probabilità di trovarvi effigiato uno dei due uomini che, U2 a parte, hanno contribuito più di ogni altro a mettere la terra di San Patrizio sulla mappa. Il primo è Oscar Wilde, uno dei pochi nella storia dell'umanità che siano riusciti a spiegare al mondo la definizione di talento senza necessariamente doverla enunciare; l'altro è una persona il cui cognome è, con tutta probabilità, l'anglicizzazione dell'originale gaelico Cathàin, che tradotto significa "battaglia". E mai cognome potrebbe essere più azzeccato per uno come Roy Maurice Keane.

GLI INIZI - Colui che diventerà il capitano più vincente della storia del Manchester United nasce a Mayfield, sobborgo di Cork, nel 1971, quartogenito di Maurice "Mossie" Keane e Marie Lynch. Il padre, dopo essere stato un discreto calciatore in diversi club locali, sbarca il lunario svolgendo svariate mansioni; lui, Roy, si destreggia fra la boxe, sport in cui eccelle nonostante la stazza minuta, e il calcio, dove già in tenera età randella diligentemente nelle file del Rockmount.

Fin dall'inizio si intuisce che Roy non è come gli altri. Non c'è avversario che non lo tema, sia sul ring che sul rettangolo verde; tutti sono sconcertati dalla sua furia agonistica, dal modo in cui si danna per rincorrere il pallone, come se non gli importasse di morire in campo, pur di ottenere la vittoria. Eppure anche lui, come molti altri campioni predestinati, ha ricevuto molte porte sbattute in faccia. La prima bocciatura arriva all'età di 14 anni, quando coach Ronan Scally lo scarta a un provino, ritenendo il suo fisico troppo gracile e inadeguato a reggere l'urto dei ruvidi centrocampisti britannici.

Ma Keane ha il fuoco dentro. Di andare a scuola non se ne parla, così a 15 anni molla tutto e va a lavorare; nel frattempo, sostiene provini su provini con vari club, sia irlandesi che inglesi, arrivando perfino ad autopubblicizzarsi nella speranza di ottenere un ingaggio. E finalmente, nel 1989, arriva la grande occasione, perché i Cobh Ramblers, squadra semiprofessionistica della sua città, si accorgono di lui.

E' una tappa fondamentale nella carriera di Keane. Non solo ha la possibilità, per la prima volta, di allenarsi quotidianamente come un vero professionista; i Ramblers rappresentano per lui, oltre che un'ottima palestra, anche una formidabile vetrina con vista Premiership. Peraltro, dato che nelle partite sposta discretamente gli equilibri, il mister non esita a schierarlo sia con le giovanili che con la prima squadra, e ogni fine settimana Roy gioca doppio.






BOX TO BOX - E' solo questione di tempo perché qualcuno si accorga di lui, e infatti nel 1990 arriva la grande occasione. Mr. Noel McCabe, osservatore del Forest, chiama da Nottingham per assicurare a una nobile decaduta della Premier le prestazioni del giovane Keane.

Sì, ma chi guida il Forest in questo periodo?

E' un personaggio che per qualunque inglese che mastichi calcio non ha bisogno di presentazioni, meravigliosamente effigiato già in tempi recenti da Tom Hooper in un fantastico film, "Il Maledetto United", tratto dall'omonimo libro, un must per tutti i romantici del pallone. Ci basti sapere che il suo nome è Brian Clough, probabilmente il miglior manager inglese di tutti i tempi.


Clough e Keane parlano esattamente la stessa lingua, e non mi riferisco necessariamente all'idioma di Shakespeare; sono entrambi figli della working class, sono estremamente infiammabili, e soprattutto venderebbero le rispettive mamme pur di vincere una partita. Due così devono per forza essere alla stessa pagina, e lo resteranno anche dopo che Clough, imbufalito per un errore del suo miglior giocatore durante un match di FA Cup contro il Crystal Palace, lo prende (non metaforicamente) a pugni negli spogliatoi.

Il Forest è la prima esperienza di livello di Keane, ma è evidente che, dopo qualche anno, Nottingham inizi a stargli stretta, anche perchè nel frattempo la squadra è retrocessa e Roy ha messo a referto il primo gettone di presenza in Nazionale maggiore; da qui a fine carriera ne collezionerà altri 66, conditi da 9 reti. Così, dopo un tentativo di transfer al Blackburn andato male, ecco passare davanti a lui il treno United. Nei primi anni '90 i Red Devils di Manchester, sotto l'egida di Alex Ferguson in panchina e di Éric Cantona sul terreno di gioco, sono prepotentemente in ascesa, e Roy vede in questo progetto l'occasione per imporsi definitivamente. Nell'estate del 1993 "Keano" approda nel club in cui fino a poco tempo prima giocava Bryan Robson, uno dei suoi idoli di ragazzino.


UNITED WE STAND - Keane calcherà il verde prato di Old Trafford per i successivi 12 anni, molti dei quali trascorsi con la fascia di capitano al braccio. Scenderà in campo in partite ufficiali con lo United per 480 volte, segnando 51 gol e vincendo tutto ciò che era possibile vincere in campo nazionale e internazionale. Il suo approccio al gioco è feroce, ogni partita vederlo giocare è uno psicodramma; come in quella semifinale di ritorno di Champions League nel 1999 a Torino contro la Juventus, in cui trascina fisicamente la sua squadra a una rimonta che sembrava impossibile. Quella coppa lo United la vincerà in una delle partite più incredibili che si ricordi, rimontando due gol in pieno recupero a un Bayern Monaco completamente attonito, dopo aver incassato colpi per tutti i novanta minuti, come un pugile all'angolo sull'orlo del collasso. Poco importa che Roy non fosse fisicamente presente in campo quella sera, causa squalifica; si rifarà pochi mesi dopo, segnando l'unico e decisivo gol nella finale di Intercontinentale contro il Palmeiras, portando i Diavoli Rossi sul tetto del mondo per la prima volta nella loro storia. Neanche George Best era riuscito nell'impresa.

Keane non è un capitano che fa gruppo; non porta i compagni a cena fuori, odia il mainstream e tutto il glamour che circonda il mondo del pallone. E' uno che, il giorno del matrimonio di David Beckham, preferisce andare a farsi una birra al "Bleeding Wolf", il pub che ha eletto a sua seconda dimora sin dai primi mesi trascorsi in North West England. I suoi compagni hanno paura di lui, alcuni persino lo odiano; recentemente, Rio Ferdinand non lo ha incluso nella sua top 11 ideale, e non credo per demeriti calcistici.


In Nazionale, nel 2002 abbandona il ritiro durante i Mondiali di Corea-Giappone per aver messo alla gogna il C.T. Mick McCarthy davanti all'intera squadra e allo staff tecnico, pronunciando le testuali parole: 
"Mick sei un bugiardo, un fottuto segaiolo, eri un giocatore mediocre e sei un tecnico mediocre; l' unico motivo per cui ho a che fare con te è perché in qualche modo alleni la squadra del mio Paese, e non sei nemmeno irlandese, ma un bastardo inglese".
Eppure nessuno, nemmeno Beckham o Ferguson (che nel frattempo ha acquisito il titolo di baronetto) incarna lo spirito di quel Manchester United meglio di lui, perché lui è l'uomo vitruviano al centro del progetto. 

Certo, non manca il rovescio della medaglia, e questo suo modo sanguigno di vivere il campo e il gioco spesso gli si ritorce contro. For further information, chiedere ad Alf- Inge Haaland o Patrick Vieira. Il primo se lo vide arrivare addosso a tacchetti spianati, dritto sul ginocchio destro; la vendetta per un diverbio in una partita di quattro anni prima, nel corso della quale Roy si ruppe i legamenti. Risultato: Keane si beccò 3 giornate di squalifica, cui poi se ne sommarono altre 5 visto che lui stesso candidamente ammise che il gesto era premeditato; Haaland invece il campo non lo rivedrà mai più. Quanto a Vieira, vederselo contro aveva su Roy più o meno lo stesso effetto che una muleta rossa ha su un toro inferocito, e dire che nelle partite di inizio millennio fra United e Arsenal ci fosse elettricità in mediana è un eufemismo. Eppure, a giudicare dal programma TV Keane & Vieira - Best of Enemies, recentemente andato in onda in Inghilterra, oggi potremmo addirittura sperare di trovarli insieme al pub.


PASSO D'ADDIO - La carriera di Roy allo United finisce nel 2005, e non in maniera banale; Ferguson lo ritiene un giocatore finito e lo relega in panchina, lui non ci sta e, a novembre, se ne va sbattendo la porta. Si accasa quindi al Celtic Glasgow, coronando il suo sogno di giocare con quella che era la sua squadra del cuore da piccolo; ma le anche scricchiolano e, alla fine della stagione, chiude con il calcio giocato. Intraprenderà una carriera da allenatore che non rende giustizia a uno dei centrocampisti difensivi più forti degli ultimi venti anni.

Pur essendo stato un giocatore talvolta discusso, al momento di appendere gli scarpini al chiodo poche sono state le voci di dissenso nei suoi confronti, persino da parte di coloro con cui c'erano stati attriti in precedenza. Darren Fletcher, che Keane aveva pubblicamente accusato di scarso impegno poco prima di abbandonare lo United, lo indicò come "il giocatore più dotato nel passare il pallone con cui abbia mai giocato", a sottolineare le qualità tecniche di colui che, agli occhi di stampa e addetti ai lavori, appariva principalmente come un mediano di interdizione.

Sir Alex Ferguson, cui Keane non avrebbe più rivolto la parola dopo l'addio a Manchester, se non in termini poco amichevoli e sempre attraverso i media (ricambiato), spese per lui le seguenti parole:
"Se mettessi Roy Keane come rappresentante del Manchester United in uno scontro uno contro uno, vinceremmo il Derby, la Premiership, una gara di barche e qualsiasi altra competizione. Possiede qualcosa di incredibile". 

E i tifosi cosa dicono di lui? Difficile riassumere in poche parole i loro sentimenti per una bandiera che tanto a lungo li ha rappresentati. Mi affido perciò ai risultati che ho trovato cercando il suo nome su YouTube; fra i video che riassumono i momenti più significativi della sua carriera, ce n'è uno intitolato "Roy Keane - The Real Captain Fantastic". E se è questo il responso del popolo del calcio, non sarò certo io a contraddirlo.


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