giovedì 7 gennaio 2016

El dueño del area chica

In quell'incredibile odissea che è una partita di calcio, il portiere recita senza dubbio la parte dell'eroe romantico. Egli è un funambolo sospeso su un filo invisibile, conscio del fatto che il minimo errore lo getterà nel baratro, l'ago della bilancia nel decretare il successo o la sconfitta della propria squadra, l'ultimo, solitario baluardo contro avversari assetati di vittoria e di gol.

Da par suo, il portiere non fa niente per nascondere questa sua diversità allo spettatore. Spesso la divisa che lo contraddistingue è una vera e propria sfida al nemico, in tutte le possibili sfumature di colore e significato; interamente nera, come il terrore che il sovietico Lev Jašin incuteva agli attaccanti che si trovavano faccia a faccia con lui, oppure variopinta, come quella che l'irridente Nazionale messicano Jorge Campos indossava nelle sue apparizioni in mondovisione.


Si dice che per sopportare il peso di tutte le responsabilità che un tale ruolo comporta, il portiere debba necessariamente essere un po' pazzo, e questa è un'opinione condivisibile; dove sarebbero arrivati i vari Buffon, Neuer, Zoff, Zenga senza uno spiccato carisma e una buona dose di sana incoscienza? Eppure, c'è una parte del mondo che ha fatto di questa etichetta un dogma inattaccabile, uno sberleffo al senso dell'ordine, della razionalità, del fatto che "il risultato viene sempre prima dello spettacolo" tipico del calcio europeo. Già, perché in quel matto continente che è l'America Latina, il portiere non è semplicemente el arquero, el dueño del area chica, ossia il proprietario dell'area di rigore; è molto, molto di più.

Il Sudamerica è un continente inquieto, e il fùtbol è il linguaggio comune ai popoli che lo abitano; durante il secolo appena trascorso, sangue e pallone si sono spesso mescolati. Per molti dei regimi totalitari e militari che si sono succeduti al comando dei vari Paesi dell'area, il successo della rispettiva Nazionale in una competizione come il Mondiale poteva rappresentare una legittimazione del potere agli occhi del popolo e dell'opinione pubblica. Negli stadi, la violenza spesso dilaga; le trasferte delle squadre europee in Argentina e Brasile nelle edizioni degli anni '60 e '70 della Coppa Intercontinentale si trasformavano frequentemente in una caccia all'uomo (e infatti, a un certo punto si decise che era meglio far giocare una partita secca in campo neutro).

Non c'è quindi da sorprendersi se, in un contesto così singolare, emergono delle figure altrettanto particolari. Come sempre accade, anche in quest'ambito abbiamo dei precursori, e uno di quelli con la P maiuscola è argentino e si chiama Hugo Orlando Gatti, detto "El Loco".



Probabilmente si è perso il conto di quanti calciatori siano stati così soprannominati nel corso di tanti anni, e questo non rende affatto giustizia al personaggio. Già, perché Hugo Gatti è veramente matto da legare. In una delle sue prime partite, verso la metà degli anni '60, gioca nelle file del River Plate contro gli acerrimi rivali del Boca Juniors, squadra in cui era cresciuto calcisticamente. Dagli spalti dietro la sua porta, come sempre accade in Argentina, piove di tutto, compresa una scopa. Senza scomporsi, nel bel mezzo della partita, Gatti afferra la scopa e si mette a spazzare la propria area di rigore. Altro momento memorabile, una tranquilla partita contro l'Independiente; troppo tranquilla. "El Loco", avvilito dalla pochezza offensiva degli avversari, si abbassa i calzettoni, si toglie le scarpe e va a sedersi sulla traversa fino alla fine del match. In seguito, senza peli sulla lingua dichiara:
"Non stava accadendo nulla. E mi stavo annoiando a morte."



E poi c'è un'altra caratteristica che rende Gatti diverso dagli altri portieri, almeno all'epoca; a lui l'area di rigore sta stretta. In ogni partita, appena ne ha l'occasione, mette palla a terra e scappa via, verso la metà campo avversaria, dribblando quanti più avversari possibile. Di questo si ricorderà molto bene il colombiano René Higuita (sì, quello del colpo dello scorpione), il quale, a cavallo fra gli anni '80 e '90, è l'emblema dell'Atletico Nacional di Medellìn, squadra famosa in quegli anni sia per le numerose vittorie in campo nazionale e internazionale, sia per la famigerata associazione con Pablito Escobar, il re della cocaina.

                           

Nemmeno Higuita ha tutte le rotelle al loro posto, e questo non sempre va a beneficio della propria squadra. Italia '90, ottavi di finale; si gioca Colombia - Camerun e la partita va ai supplementari. Roger Milla segna l'1-0, ma a René questo non sembra importare più di tanto. Come se fosse a giocare al campetto con gli amici, stoppa tranquillamente un pallone fuori dalla sua area di rigore, con Milla che gli si fa incontro. Tenta una finta, ma stavolta gli va male; Milla intercetta e deposita in rete con la stessa facilità con cui George Best si faceva un whisky. La Colombia va a casa; probabilmente un altro al suo posto sarebbe stato linciato, ma è Higuita, ragazzi. Prendere o lasciare. E i colombiani, saggiamente, porgono l'altra guancia.

A fine carriera, lo score di Higuita in partite ufficiali sarà migliore di quello di molti giocatori di movimento; ben 55 gol in totale fra squadre di club e Nazionale. Il suo avvento inaugura in Sudamerica l'era dei portieri goleador: José Luis Chilavert, Jorge Campos, Rogerio Ceni. Quest'ultimo domina questa speciale classifica con 131 segnature in carriera; roba da fare invidia a un attaccante!

Con il ritiro di Ceni, soltanto pochi mesi fa, si è chiusa un'epoca anche per il calcio sudamericano. L'epoca in cui il portiere non è solo un ruolo, ma innanzitutto una forma mentis, un modo di essere; quello di un uomo che rifiuta qualunque tipo di schema o di impostazione, che cerca sempre di superare i limiti che gli sono stati imposti. In un calcio arido, che è sempre meno un gioco e sempre più un business, dove spesso la tattica predomina a discapito della creatività, non ci resta che sperare nei futuri eredi di questi straordinari personaggi. Perché bisogna sempre ricordare che il football non è soltanto competizione ma anche arte, e l'arte non può sopravvivere senza quel pizzico di follia che costantemente la alimenta.



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